PERUGIA – A 53 anni (li ha compiuti lo scorso 7 Giugno) Prince Roger Nelson è ancora l’imprevedibile, vulcanico e sfrontato Sexy Motherfucker (ipse dixit) che, con dischi come 1999, Purple Rain, Sign’o’the times e Symbol, negli anni ’80 e ’90 cambiò in modo radicale il corso del rock e della musica nera.

Sempre prolifico e iperattivo, come negli anni d’oro, ormai completamente svincolato da majors e case discografiche, oggi Prince continua a proporre la sua caratteristica miscela di soul, funk, blues, rock e jazz in dischi splendidamente suonati e arrangiati (anche se non più rivoluzionari come una volta) e, soprattutto, in performance live che viaggiano ancora su livelli fantasmagorici.

A testimoniarlo c’è stato il concerto di venerdì sera a Perugia, sua prima esibizione all’interno dell’ “Umbria Jazz” e unica data italiana del tour mondiale “Welcome to America”.

Sono passate da poco le 21:30 quando Prince sale sul palco dell’arena Santa Giuliana, vestito con una blusa e un paio di pantaloni dorati.

Nessun posto a sedere, spettatori tutti in piedi, come in un party, per volere dello stesso Prince, che a più riprese inviterà tutti a ballare e che alla fine ricambierà il “sacrificio” dei fan con una maratona musicale di oltre tre ore. Esibizione scatenata, spettacolo molto fisico, un’autentica lezione di black music che, al momento, nessun altro al mondo è in grado di impartire con altrettanta maestria.

L’inizio è magnifico, con una versione tiratissima del classico di Billy Cobham “Stratus”. La band è perfetta, potentissima, e composta per buona metà da donne. A trainarla sono le due tastiere e il batterista John Blackwell, ex Parliament e Funkadelic, mentre il Nostro spadroneggia e fa quello che vuole alla chitarra (“Nel suo genere non è meno bravo di Abbado e Pollini” disse di lui, anni fa, il grande Silvano Bussotti, mentre Miles Davis lo definì “il nuovo Duke Ellington”).

Il repertorio è formato soprattutto da brani tratti dagli ultimi dischi, ma nel corso del concerto scorrono anche vecchi hit (“Little Red Corvette”, bellissima nel nuovo arrangiamento, “Controversy”, “Baby I’m a star”) e classici evergreen della musica afro-amerciana. La coda di “Crimson and Clover”, ad esempio, va a sfociare in un medley che comprende “Waiting in vain” di Bob Marley e “People Get Ready” di Curtis Mayfield, uno dei numi tutelari di Prince.

Vengono omaggiati anche Jimi Hendrix (“Foxy lady”), Sly Stone (“Thank you falletin be myself agin”, con tanto di virtuosismi di Prince al basso) e Michael Jackson (“Don’t stop ‘til you get enough”). C’è spazio persino per un tributo a Bob Dylan, di cui viene riletta “To make you feel my love” in una versione tutta al femminile cantata a quattro voci con il solo accompagnamento del pianoforte.

Non c’è una pausa, un attimo di stanca, un calo di tensione. Prince è più che mai padrone della scena, carismatico, elegante, affascina per come si muove, cammina, suona, balla. Groove spaccamontagne si alternano a jam in stile jazz e lenti da struscio e da urlo. E’ come se sul palco rivivessero, tutti insieme e in una volta sola, James Brown e Little Richard, Jimi Hendrix e Sly and the Family Stone, Funkadelic e Marvin Gaye, Miles Davis e gli Chic.

Il finale è un crescendo rossiniano: “Purple Rain”, cantata sotto una vera pioggia di stelle filanti viola; quindi “Sometimes it snows in April”, “If I was your girlfriend” e, a chiudere, “Kiss”.

Una volta la scrittrice afroamericana Toni Morrison disse: “I bianchi imparano a comportarsi a modo, imparano l’attento sviluppo della frugalità, della pazienza, della sana morale e delle buone maniere. In breve, a sbarazzarsi della funkitudine. La spaventosa funkitudine della passione, della natura, dell’ampia gamma delle emozioni umane. Ogni volta che irrompe fuori, la spazzano via; ogni volta che si solleva, la schiacciano; ogni volta che rispunta fuori la cercano, e non hanno pace finché non l’hanno annientata e continuano in questa lotta fino alla morte”.

Un po’ esteta un po’ filosofo ballerino, Prince è ancora qui a ricordarci che è possibile costruirsi e confermare un’identità anche (anzi, soprattutto) attraverso il ritmo, il ballo e un’estetica fusione di comportamenti disinibiti e appassionati. Scatenato, eterno, il genio di Minneapolis ha ancora molto da insegnare.

Roberto Ciuffini

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