L’AQUILA – Vivere il Natale significa accogliere Gesù-che-viene, per farLo entrare in tutti gli ambiti della nostra quotidianità. Soprattutto le situazioni di oscurità e di sofferenza, che caratterizzano la nostra storia (personale e comunitaria), attendono la Sua venuta per essere riscattate e trasformate in fonti di bene. Fare spazio a Gesù, infatti, significa anzitutto lasciarsi raggiungere dalla luce del Vangelo, che ci consente di avanzare verso Dio e valorizzare i fattori positivi di cui disponiamo, ma ci aiuta pure a risolvere i problemi “esistenziali” (anche i più complicati) che ci assillano. Infatti, ciò che è autenticamente cristiano è anche pienamente umano. Da Lui, inoltre, possiamo trarre l’energia – che da soli non abbiamo – per vincere la “forza di gravità” del male, che ci attira verso il basso, e per camminare sereni sui sentieri faticosi e splendidi della santità (che è ascesa graduale verso la pienezza, evangelica ed umana)
C’è tuttavia, anche per noi, il rischio di rimanere intrappolati nell’atteggiamento degli abitanti di Betlemme, che Gli opposero la “porta chiusa”. Racconta infatti il testo biblico che Maria, ormai prossima al parto, e Giuseppe furono costretti a trovare ricovero in una stalla, perché per «loro non c’era posto nell’albergo» (Lc 2,7). Sono persuaso che quella gente non fosse particolarmente cattiva e neppure tanto diversa da noi. Avranno avuto – a loro modo di pensare – “motivate ragioni” per non concedere ospitalità a quei Personaggi, che apparivano sconosciuti e scomodi. Rimanendo barricati dietro mentalità miopi ed autocentrate, hanno perso un’occasione straordinaria, che avrebbe per sempre cambiato in meglio la loro grigia e anonima esistenza. Ho pensato spesso come saranno rimasti quei paesani quando, varcata la soglia del tempo ed immessi nell’eternità, si saranno resi conto che Colui al quale avevano rifiutato l’ingresso, nelle loro abitazioni, era il Figlio di Dio. Avranno compreso, con drammatica tristezza, di avere detto “no” al Tutto assoluto (che insieme al Bene infinito porta con Sé tutti i beni creati) per rimanere invischiati in prospettive grette e interessi fatui, che si dissolvono nel niente. Avranno, allora, capito che la causa di tante brucianti sconfitte, in cui erano incappati nel loro itinerario terreno, stava proprio nella scelta di rinserrarsi nel loro guscio egoistico. Infatti, quando l’ “io” dell’uomo si chiude a Dio, e si atteggia ad unico regista di se stesso, si autocondanna a vagare nei propri labirinti interiori e a produrre vicende fugaci e brutte, pervase da un opaco e pervasivo malessere. Chi, invece, spalanca l’uscio della mente e del cuore al Signore, avverte la progressiva guarigione dal peccato, che lo corrode da dentro, e sperimenta la gioia di una vita nuova che, facendolo figlio nel Figlio, lo rende capace di amare con lo stesso Amore di Dio. E – come è dimostrato dalla storia dei santi – chi ama, vince: sconfigge, cioè, le avversità, che altrimenti lo avrebbero soffocato, e si rafforza nella pratica delle virtù evangeliche, che gli consentono di realizzare opere belle e durature, sorgenti perenni di pace e di letizia. Il Vangelo, infatti, non solo ci guida sulle vie che conducono al Cielo, ma ci insegna pure a camminare speditamente e con saggezza sulla terra.
Sappiamo di essere esposti frequentemente a delusioni cocenti e a situazioni contorte, che ci rendono amara la vita; la condizione peggiora ulteriormente quando ci accorgiamo di non essere in grado di risalire dai “dirupi” emotivi in cui siamo scivolati o nei quali siamo stati scaraventati; e un brivido gelido ci afferra se ci sentiamo soli. Eppure, vicino a noi – anche se non Lo vediamo – si trova Qualcuno che ci viene incontro ed è in grado di tirarci fuori dalle nostre voragini, per riaprire il nostro sguardo ai bagliori della speranza. Il testo dell’Apocalisse afferma che il Signore sta alla nostra porta e bussa: attende solo che la Sua voce sia ascoltata e Gli venga aperto (3,20-21). A coloro che Gli fanno posto reca il sostegno della Sua presenza e dona “grazia su grazia” (cfr. Gv 1,16). Proprio così! La risposta alle nostre esigenze profonde sta dietro la nostra porta, eppure ci capita di rimanere tappati nei nostri ripostigli psichici, preda dei grovigli mentali e affettivi che ci avvolgono. Siamo simili a persone assetate che stanno a due passi da un flusso abbondante di acqua fresca, ma non si muovono per attingerla e continuano a lamentarsi per l’arsura. Oppure, se vanno alla fonte, mettono il loro bicchiere al contrario, cioè capovolgendolo: così l’acqua, non raccolta nella parte concava, scorre tutta sul “dorso” del bicchiere, senza lasciare all’interno neppure una goccia. Ricordiamolo: per avvalersi dei doni di Dio, occorre mettersi nella condizione di riceverli: e tra le premesse necessarie, per garantire il “libero accesso” della grazia nel nostro cuore, compaiono la prontezza a mettersi in discussione, la generosità verso il prossimo e la disponibilità alla conversione. Se siamo occupati da noi stessi e intasati da dinamiche narcisistiche, il Signore che viene non trova posto. Accade, così, che vietiamo a Dio di prendere dimora nella nostra storia. L’Onnipotente – lo sappiamo – rispetta la nostra libertà e si arresta di fronte alla indifferenza o al rigetto con cui Gli sbarriamo il passaggio: ma, se restiamo privi della Sua Verità e della Sua Vita, ci affanniamo invano, perché corriamo dietro a noi stessi e edifichiamo sulla sabbia (cfr. Mt 7,26-27).
È importante, perciò, chiedersi: ho fatto nascere Gesù nelle mie difficoltà, perché possa assumerle e dirigerle verso mete costruttive? L’ho lasciato entrare negli angoli nascosti e dolorosi della mia esistenza, perché siano rischiarati dalla sua Parola e trasformati dalla sua grazia? Gli ho permesso di abitare nelle aree positive e soddisfacenti della mia vita, perché possa perfezionarle e moltiplicarne le valenze buone, rendendole un dono anche per altri? Niente, infatti, di ciò che siamo ed abbiamo ci è dato solo per noi. Ciò che è nostro, infatti, reca in sé una costitutiva tensione ad essere partecipato e “comunionalizzato”, altrimenti finisce con l’appassirsi e marcire. L’amore è l’unico bene che si moltiplica per “con-divisione”, mentre diminuisce per tentativi di “addizione egoistica”.

Mi viene da immaginare che, quando compariremo davanti al Signore e rivedremo – come in un filmato – tutta la nostra vita, ci rallegreremo osservando i frutti generati dai semi evangelici, sparsi dallo Spirito nel solco dei nostri giorni, e saremo lodati da Dio per averli saputi coltivare, rendendoli fecondi. Ma penso pure che vedremo, raccolte in un grande deposito, tutte le grazie che ci erano state inviate, per far fiorire i deserti della nostra vita, ma che abbiamo ignorato e scartato: infatti, proprio a causa della nostra latitanza nei confronti della Provvidenza, sono state riportate indietro e riconsegnate al Mittente. Ma le grazie rigettate erano quelle di cui avevamo bisogno per sciogliere i nodi delle contrarietà e rendere fertili le stagioni aride della nostra storia! Constateremo, allora, che molti fallimenti e sconforti, in cui siamo incappati, non sono state provocati dalla mancanza di interventi dall’Alto, ma dalla nostra condotta ribelle, che ci ha portato a scambiare la calotta angusta del nostro individualismo per l’infinita vastità della volta celeste.

Il Natale ci porta l’annuncio, sconvolgente ed entusiasmante, che Dio si prende cura di noi: così tanto da mandare il suo Figlio. Non poteva amarci di più! «Nella Notte di Betlemme – scrive Benedetto XVI – , il Redentore si fa uno di noi, per esserci compagno sulle strade insidiose della storia. Accogliamo la mano che Egli ci tende: è una mano che nulla vuole toglierci, ma solo donare» . Questo mistero si rinnova, anche oggi, per ogni uomo di buona volontà. Maria – attraverso la Chiesa – di cui è icona viva – continua a portarci Gesù, che, come sole nascente, rischiara il buio della sofferenza, illumina l’orizzonte del nostro pensiero, e benedice con il suo calore ogni nostra impresa.
Facciamo dunque Natale, “nella” Chiesa e “come” Chiesa, per lasciare a Dio la possibilità di compiere “grandi cose”, in noi e attraverso noi (cfr. Lc 1,46-55).
Auguro cordialmente che – come i pastori di Betlemme – anche noi, essendoci recati nei “luoghi” dove Gesù si rende presente e agisce (l’ascolto della Parola, la celebrazione dei sacramenti, l’esperienza della comunione famigliare ed ecclesiale…), possiamo tornare, pieni di letizia, glorificando Dio per le meraviglie che abbiamo visto e udito (cfr. Lc 2,20).
Abbraccio tutti e ciascuno, nella gioia di Gesù: Colui che è venuto, che viene e che verrà!

+ Giuseppe Petrocchi
Arcivescovo

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