L’AQUILA – La notte del 6 aprile 2009, alle ore 3,02 la terra tremò in Abruzzo. Le prime immagini televisive sugli effetti del sisma, confuse e terribili, che avevano colpito violentemente la città del L’Aquila, documentarono immediatamente il dramma che quella terra stava vivendo. Nella Sala Operativa della Protezione civile regionale scattò subito l’allerta.

Due ore dopo la catastrofe, alle ore 5,00 circa del mattino da Palmanova furono contattati i coordinatori dei gruppi comunali per organizzare la partenza alla volta del capoluogo abruzzese per soccorrere le popolazioni terremotate.

Io, volontario del gruppo di Pordenone, figlio di abruzzesi, non ebbi un attimo di esitazione, raccolsi in fretta le mie cose, indossai la mia divisa celeste e via in sede per organizzare la missione in aiuto di quanti, laggiù, erano in difficoltà.

Con me partirono, spinti da un sano spirito di altruismo, altri cinque volontari pordenonesi. Intorno alle ore 7,00 a Portogruaro si formava via, via la colonna mobile pronta a partire alla volta del cratere abruzzese.

Più di quattrocento volontari organizzati e cinofili con i loro cani, provenienti da tutte le parti della regione, risposero tempestivamente all’appello della Protezione civile del Friuli-Venezia Giulia.
Durante il viaggio arrivavano via radio notizie drammatiche di quanto era accaduto quella notte in Abruzzo e il nostro pensiero correva al terremoto che nel 1976 colpì la nostra regione e che provocò più di mille morti.

Verso sera l’arrivo a L’Aquila e ai nostri occhi si presentarono le prime terribili immagini delle case distrutte dal sisma e il dolore della gente che aveva visto crollare la propria abitazione o perso un proprio caro sotto le macerie.

Venimmo subito mandati a Coppito, presso la sede della Guardia di Finanza, e da lì a S. Elia, quartiere periferico della città.- La priorità assoluta era il montaggio delle tende ministeriali per dare un ricovero a quanti avevano perso la loro casa ed erano costretti a dormire in macchina.

Per l’intera settimana trascorsa in Abruzzo montammo e allestimmo la tendopoli di S. Elia e ogni sera, nel lasciare il posto di lavoro per raggiungere la nostra base operativa e logistica, il Campo Friuli, negli occhi degli aquilani si leggeva il loro grazie per quanto stavamo facendo.
Erano i giorni del dolore, della paura, della sofferenza, ma anche della solidarietà.

Tutta l’Italia si era stretta intorno agli aquilani e da ogni parte del Paese arrivavano soccorsi ed aiuti sotto ogni forma.Erano anche i giorni delle promesse, delle assicurazioni, degli impegni dei politici nazionali e stranieri giunti per il G8 per una rinascita celere della bella città delle novantanove chiese.

La scorsa estate, a oltre due anni dal terremoto, sono voluto tornare in quei luoghi. Nella periferia, al posto delle tendopoli, sono sorti dei grandi edifici, puri dormitori, senza un’anima, senza una vita comune, senza punti di aggregazione per i giovani e per gli anziani. Parlando con la gente, apprendo con rammarico che ancora molte persone vivono negli alberghi della costa, lontano dalla propria casa e dagli affetti di una vita.- Condizioni, queste, che favoriscono lo sfaldamento del tessuto sociale, culturale ed economico della città.

La cosa però che più mi ha rattristato è entrare nel centro storico del L’Aquila e vedere una città fantasma, strade senza vita con gli edifici segnati dal sisma e imbracati da gabbie di ferro, le attività commerciali chiuse e la speranza spegnersi nei volti dei cittadini aquilani.

La città sta morendo lentamente, le macerie sono ancora agli angoli delle strade, diverse zone sono interdette alla cittadinanza, neanche un cantiere aperto, non un segno tangibile di quella ricostruzione da tanti promessa. L’economia della zona è immobile, molte persone nel disastro hanno perso il lavoro e, se le cose resteranno così, saranno chiamate a restituire presto le tasse sospese. I finanziamenti stanziati per la ricostruzione non sono mai stati spesi per non chiari impedimenti burocratici.

In questi anni i cittadini del L’Aquila sono più volte scesi in piazza e hanno inscenato forme di protesta, anche clamorose, come quando, armati di carriole e pale, hanno cominciato il lavoro di ripulitura delle macerie dalle strade, sostituendosi simbolicamente agli organi istituzionali che avevano fatto tante promesse, mai mantenute.

Con queste mie riflessioni vorrei attirare l’attenzione della gente friulana, già provata dal sisma del 1976, perché le tante emergenze del nostro Paese non sono solo questioni locali, perché la solidarietà manifestata dagli Italiani nei giorni del terremoto non può spegnersi, perché con essa sta morendo una città intera e si sta dissolvendo la sua comunità.

Non lasciamoli soli …
Pordenone, 27 febbraio 2012
Pierluigi Ricci

 

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Registrazione Tribunale dell’Aquila n.560 del 24/11/2006 – PI 01717150666

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