L’AQUILA – In questi giorni stiamo assistendo al rincorrersi di notizie e dichiarazioni relative all’introduzione del numero programmato locale per 4 corsi dell’Ateneo su 5 critici, a fronte di altri 61 corsi che non hanno presentato alcun problema specifico. Spesso queste dichiarazioni sono costruite senza alcun puntuale riferimento alla legge e al panorama universitario italiano che, per iniziare, nella quasi totalità dei casi già prevede il numero programmato per i corsi dei quali stiamo discutendo. Il problema fondamentale è: l’introduzione del “numero chiuso” è una scelta politica del nostro Ateneo? Volendo allargare il quadro: stiamo voltando le spalle alla nostra città? È opportuno, a questo punto, chiarire di cosa si sta parlando, anche se occorrerà un po’ di pazienza da parte del lettore.

Nel gennaio e poi a dicembre 2013 sono stati pubblicati due Decreti Ministeriali, il n. 47 e il n. 1059, che regolano l'”Autovalutazione, Accreditamento iniziale e periodico delle sedi e dei corsi di studio e Valutazione periodica”, decreti attuativi della legge Gelmini. Questi decreti definiscono i criteri per mezzo dei quali comitati esterni di esperti valuteranno gli Atenei italiani, incluso il nostro.

Tra i criteri, il più rilevante è quello che fissa per ogni corso di laurea il numero massimo di studenti e il numero minimo di docenti che formano quella che potremmo definire una “buona classe”, ossia una classe con un rapporto equilibrato e congruo, secondo il Ministero, tra studenti e docenti. Se questo rapporto non è rispettato, il Ministero adotta una serie di misure di crescente criticità. Quali?

In primo luogo, il Ministero non accredita il corso medesimo, con conseguenze finanziarie sull’Ateneo; in secondo luogo ne propone la soppressione, ossia la sua chiusura completa; infine, mette sotto osservazione l’intero Ateneo, potendo giungere a imporre la chiusura completa dell’Istituzione.

Che piaccia o meno, la legge Gelmini impone al sistema universitario una serie di criteri di valutazione e controllo a cui occorre sottostare. L’idea di fondo è verificare che gli atenei programmino in modo efficace la propria offerta formativa in armonia con il numero e il tipo di docenti, laboratori, attrezzature e biblioteche di cui dispongono. Da questi criteri è emersa la necessità di adottare il numero programmato a livello locale: il numero di docenti e di studenti, le aule e i laboratori sono tali da non consentire di rispettare quella buona classe che abbiamo prima brevemente descritto.

Qualcuno obietta che nell’anno accademico 2013-2014, l’allora Preside della Facoltà di Scienze Inverardi non chiese il numero programmato locale per il corso di laurea in Scienze biologiche, lo stesso per il quale oggi si chiede tale intervento. Come mai?

Semplicemente perché i requisiti di docenza, il buon rapporto tra studenti e docenti che abbiamo visto, sono stati incrementali, ossia sono aumentati anno dopo anno, e aumenteranno ancora per l’anno accademico 2015-2016, per dare tempo agli Atenei di adottare misure correttive. E questo è successo anche per gli altri corsi di laurea.

Ma allora, incalzano alcuni, perché l’Ateneo non ha adottato tali misure, assumendo più docenti e chiedendo maggiori finanziamenti?

Ci sono, al riguardo, ragioni nazionali e ragioni locali. Da un lato, le norme votate dal Parlamento hanno imposto dei vincoli durissimi alle assunzioni. Gli Atenei, come le altre amministrazioni pubbliche, non possono assumere che una percentuale delle risorse che si liberano per cessazioni. Questo sarà vero fino al 2018, anno in cui nel nostro Ateneo andremo in parità, ossia potremo assumere tanti docenti quanti pensionamenti, ma fino al 2018 continueremo a perdere risorse umane senza poterle sostituire.

Dall’altro lato, quello locale, scontiamo le scelte di gestione del personale fatte dall’allora Rettore Di Orio il quale, sfondando il limite del fondo di funzionamento ordinario per spese di personale imposto dal Ministero, fece cadere il nostro Ateneo nella categoria dei “non virtuosi”, con la conseguenza di non poter assumere personale per ben due anni. Purtroppo, in quei due anni abbiamo avuto un aumento dei pensionamenti, che quindi non abbiamo potuto recuperare nemmeno nella misura del 50% prevista dalle norme. Questo atto ci è costato l’impossibilità di effettuare concorsi per un numero equivalente a 30 professori ordinari, oppure a 50 tra ricercatori ed associati, oppure a 60 ricercatori. Docenti che oggi ci avrebbero permesso di affrontare con altra serenità il duro passaggio di applicazione dei decreti indicati, e ci avrebbero permesso di non dover prendere oggi decisioni difficili per tutti.

In questa situazione il Senato Accademico, organo di governo e programmazione, ha fatto una scelta responsabile e di tutela dell’Ateneo, dei suoi studenti e della città. Ha scelto, con risorse umane diminuite di 111 unità (*) rispetto al 2008 e con una previsione di ulteriore riduzione fino al 2018, di fare ogni sforzo per mantenere l’offerta formativa nella sua interezza e con il massimo livello qualitativo possibile. Quindi, di offrire 66 corsi di studio, alcuni senza numero programmato, altri con numero programmato di tipo nazionale, altri di tipo locale. La limitazione locale all’accesso riguarda quindi solo 4 corsi di laurea su 66, e il numero fissato come limite è quello più alto consentito dalla legge.
Non altrettanto responsabile è risultata la posizione assunta da alcuni consiglieri di amministrazione, che hanno dato parere negativo sull’ intera programmazione di Ateneo, gettando a mare 61 corsi di laurea senza criticità, per 4 che comunque il Senato non stava certo chiudendo, il tutto senza fornire alcuna motivazione tecnica del loro voto. Perché “tecnica”? Perché compito del CdA è la vigilanza della sostenibilità economica delle proposte che avanza il Senato Accademico, e questa era ed è rispettata. Invece, il CdA si è eretto a paladino della lotta contro il numero programmato, un compito che non gli appartiene affatto. L’esito ultimo, come noto, è l’approvazione a larghissima maggioranza, da parte del Senato Accademico, della programmazione, mentre il Consiglio di Amministrazione non ha deliberato per mancanza di numero legale. I consiglieri che avevano manifestato il loro voto contrario nella precedente riunione non hanno ritenuto di doversi assumere la responsabilità di presentarsi e motivare alla luce delle prerogative del CdA il loro voto. È stata la prima volta a nostra memoria che un organo dell’Ateneo non si è riunito per mancanza di numero legale. Anche questo fa parte della democrazia, ma ci sembra un modo non condivisibile di interpretarla.

Il secondo grande tema, come detto, è se l’Università, con questa scelta stia voltando le spalle alla città. Alcuni hanno sostenuto che l’Università si è chiusa in una “torre d’avorio”, interrompendo le comunicazioni con il suo territorio e la sua città. Penso che la realtà sia diametralmente opposta. L’Università per la prima volta ha parlato con la città, le ha parlato con franchezza e andando alla sostanza vera delle cose.
Per la prima volta, il sito dell’Ateneo ha reso pubbliche le linee strategiche proposte dalla Rettrice, le quali chiarivano lo stato del nostro Ateneo e sulle quali si chiedeva l’intervento di tutte le realtà locali. L’inaugurazione dell’anno accademico è stata un’altra occasione in cui la relazione della Rettrice ha mostrato alla città, alle autorità cittadine, lo stato dell’Ateneo e le criticità che si sarebbero dovuto affrontare a causa dei vincoli normativi prima descritti. L’Università ha poi adottato azioni di programmazione, anch’esse pubbliche ed aperte alle critiche e ai contributi di tutti. Abbiamo ricevuto stimolanti osservazioni da singoli cittadini e da studenti, ma non abbiamo ricevuto nulla né dalle istituzioni cittadine né dalla politica, solo un silenzio assordante.

Eppure la politica “professionale” in questi giorni interviene sul governo dell’Università accusandolo di scelte “assurde” che porteranno a ledere “il diritto allo studio”. Parole e tesi inaccettabili oltreché infondate. Il diritto allo studio riguarda gli studenti di tutti i nostri 66 corsi di studio, non una sottoparte di essi. Approvando l’offerta formativa abbiamo non solo difeso il diritto degli studenti dei 61 corsi in regola, ma anche quello di coloro che fanno parte dei 4 corsi con numero limitato, perché abbiamo evitato che il Ministero potesse adottare le misure più drastiche, la loro chiusura. Il punto non è diritto o non diritto allo studio, ma la misura e l’esercizio di tale diritto.
Se la politica vuole difendere numeri più alti, se vuole allargare il diritto allo studio pur preservando il diritto alla qualità dello studio, deve allora impegnarsi a riequilibrare il sistema università, a togliere i vincoli al turn over, a incentivare e premiare seriamente quelle realtà che si impegnano e lavorano nella ricerca, a bloccare i tagli ai fondi di funzionamento ordinario. Solo in questo modo si fanno gli interessi veri degli studenti e della collettività tutta. Il resto sono occasioni per facili applausi, la cui eco si spegne assieme ai riflettori della ribalta. Per questa politica le porte dell’Università sono sempre aperte e le riflessioni ascoltate con attenzione.

Paola Inverardi
Rettrice dell’Università dell’Aquila

(*) da 668 del 31/12/08 a 557 di oggi fonte (http://cercauniversita.cineca.it/php5/docenti/cerca.php)

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